Michele Serra: “I radical chic cercano solo il nemico immaginario” (2024)

Sulle parole “radical chic”, “buonismo”, “sinistra al caviale”, “comunisti col rolex” e altre decine di epiteti che non significano nulla neanche per chi le pronuncia, un pezzo di politica ha costruito una narrazione che va avanti da circa vent’anni. Non è solo la destra, non sono solo i populisti. Ci sono stati dirigenti di centrosinistra che credendo di saperla lunga hanno rivoltato quelle parole nei confronti dei compagni di strada per tentare ogni volta di dimostrarsi migliori, più intelligenti, più furbi. Di “avvicinarsi al popolo”, almeno nelle intenzioni, come se il popolo non fosse semplicemente «l’insieme dei cittadini», come lo definisce nel preambolo di quest’intervista Michele Serra. E non - invece - una massa incolta da seguire, più che guidare, per usarne gli umori e le paure traendone un vantaggio che si chiama consenso.

Giorgia Meloni ha inviato un videomessaggio agli spettatori de La7 schernendoli sull’Apocalisse che non è arrivata, magnificando l’operato del suo governo e poi sostenendo che le prossime elezioni europee saranno decise dal popolo e non dai «salotti dei radical chic». A cosa si riferiva?
«Devono essere salotti di dimensioni mai viste. Enormi, con migliaia di divani e poltrone. E champagne portato con le autobotti. L’inferiority complex della nuova destra la spinge a ingigantire il nemico».

Fino a qualche tempo fa la rete “radical chic” per eccellenza sarebbe stata considerata Rai3. Sono cambiati i bersagli?
«Quella di Curzi e Guglielmi era molto pop. Ed è molto pop anche La 7, che ha giustamente approfittato dell’enorme spazio che la Rai meloniana ha lasciato libero alla sua sinistra. Il problema è che mangiare con le posate e rispettare il congiuntivo basta e avanza per essere definito radical chic. La cosa va avanti da molti anni, nel corso dei quali non sono riusciti nemmeno a trovare un sinonimo decente. È preoccupante. Ma per loro».

Che senso ha fare campagna elettorale contro un pezzo di elettorato? Non contro i partiti avversari, ma contro i loro elettori. Contro una parte del Paese che in definitiva Giorgia Meloni è stata chiamata a guidare.
«Beh, è una specie di riedizione farsesca della lotta di classe. Che si fonda su una finzione assurda: il popolo, “le mamme e i papà” di cui parla sempre Salvini come faceva il Mago Zurlì allo Zecchino d’Oro, sta con la destra. A sinistra sono rimasti solo professori, galleristi, psicanalisti, qualche anziano giornalista non convertito, contesse ecologiste, dame che ricevono. Come faccia la sinistra ad avere milioni di voti potendo contare su categorie così esigue, è un mistero».

Lo è, eppure non c’è mai stato epiteto più fortunato in politica. Può significare qualsiasi cosa, ma soprattutto viene usato per delegittimare chiunque osi preoccuparsi non di se stesso ma degli altri, con l’accusa sottesa di essere in fondo solo un ipocrita. Lei ricordò qualche anno fa nella sua Amaca, su Repubblica, come nacquero quelle due parole, coniate dal giornalista americano Tom Wolfe in un’epoca molto lontana da questa: nel 1970.
«Tom Wolfe era molto spiritoso, anche se, lui sì, orribilmente snob. Radical chic, nell’unica versione non apocrifa, che è la sua, significava una cosa molto specifica: un milieu di artisti e intellettuali newyorchesi, molto ricchi, che negli anni Settanta civettava con l’estremismo di sinistra, ovvero, scrisse Wolfe, “con quelli che volevano impiccarli”».

Parlava di una festa data dal compositore Leonard Bernstein in favore delle Black Panther, gruppo a dir poco radicale anche se comunque, poi, non lo impiccarono. Oggi cosa significa?
«Niente. Un fantoccio retorico usato da chi non ha argomenti propri da spendere».

Il «bifolco dell’Ohio» di cui parlava Wolfe in un’intervista in cui accusava i radical chic al caviale di aver spianato la strada a Donald Trump, cosa ha ottenuto da Trump?
«Niente. I miliardari, normalmente, se ne fregano dei rednecks. Li usano come fanteria per le loro guerre, come ha fatto Boris Johnson con Brexit, e poi li lasciano nella stessa polvere dove li avevano reclutati. Per i populisti il popolo è solo un pretesto».

In effetti, il “forgotten man”, l’uomo dimenticato dell’America profonda che Trump prometteva di riscattare, non ha ottenuto alcun vantaggio per sé dalla sua presidenza. Forse solo qualche svantaggio per chi è ancora più sfortunato di lui. E i maschi adulti bianchi arrabbiati che hanno votato la Brexit in Gran Bretagna, cosa hanno ottenuto dalla Brexit?
«Ancora una volta: niente».

Eppure anche nell’ultimo libro di Elizabeth Strout, Lucy davanti al mare, a un certo punto il marito di Lucy - scienziato, progressista - dice: «Le persone hanno guai seri e noi ci sentiamo superiori». Questo senso di superiorità c’è stato anche in Italia? E ha fatto danni?
«Il senso di superiorità di chi ce l’ha fatta esiste eccome, ma riguarda tutta la società e tutte le epoche. E mi sembra di poter dire che riguarda, ben più della politica, l’animo umano. Non credo che l’imprenditore leghista, quando osserva dal suo Suv i migranti in bicicletta, sia sopraffatto dal senso di solidarietà. Credo, al tempo stesso, che milioni di persone, non tutte di sinistra e non tutte del mondo cattolico, si pongano il problema di come aiutare il prossimo. La politica dovrebbe dare voce e forma a questo sentimento. Il volontariato non basta».

Una settimana fa, Meloni si era vantata di non avere una laurea accusando Carlo Cottarelli di volersi far chiamare dottore. Ha segnato un punto?
«Non sono laureato neanche io. Tutti dovrebbero chiamarsi, in un Paese civile, “signora” e “signore”. Perché siamo tutti cittadini. L’affezione per i titoli prima del cognome è un ridicolo retaggio borbonico».

Destra e sinistra hanno una diversa idea di popolo?
«Proverei a dirla così: per la destra odierna (quella populista, totalmente diversa dalla vecchia destra liberale) il popolo va bene così com’è. Per la sinistra di tutte le epoche, il popolo è subalterno, sfruttato e mantenuto nell’ignoranza, e dunque non va affatto bene così com’è».

Prima dell’uscita contro La7 c’è stata quella in cui la presidente del Consiglio ha accusato la sinistra di aver chiuso tutto durante il Covid. A parte che è quel che all’inizio aveva invocato anche lei dall’opposizione, c’è il rischio di alimentare posizioni antiscientifiche?
«Non è un rischio, è una certezza».

È come se scienza e istruzione fossero diventate nemiche della destra mondiale. È un caso, un disegno o la conseguenza di qualcosa?
«È la conseguenza di un rancore impotente, senza sbocchi. L’unico modo di contrapporsi alla scienza e alla cultura è contrapporre più scienza e più cultura. Il solo, vero, profondo merito della sinistra - basterebbe da solo a condonarle gran parte delle sue colpe - è avere fatto coincidere la cultura con la dignità».

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